Nel 2016, secondo i dati diffusi nei giorni scorsi dall’agenzia europea Eurostat, la percentuale di laureati tra le persone tra i 30 e i 34 anni è cresciuta in tutti i paesi membri dell’Ue rispetto al 2002 ma l’Italia si classifica al penultimo posto tra gli Stati con la percentuale più bassa (26,2%). Una quota inferiore a quella dei laureati italiani si registra solo in Romania (25,6%). Il livello di persone con un titolo di istruzione superiore, nel nostro Paese, è comunque raddoppiato rispetto al 2002, quando la quota era del 13,1%.
In testa alla classifica dei Paesi europei con più laureati ci sono Lituania (58,7%), Lussemburgo (54,6%) e Cipro (53,4%). In linea con tutti gli altri Paesi europei, anche in Italia la maggioranza dei laureati è donna con una quota del 32,5% contro il 19,9% degli uomini. L’obiettivo della strategia Europa 2020 è che tutti i Paesi arrivino per quella data ad avere il 40% di laureati.
I dati Eurostat vanno considerati, però, per quello che sono: numeri e percentuali. Non si tiene conto del livello di istruzione e formazione degli studenti. In una società, sempre più economicista, ci si ferma solo alla forma e non alla sostanza.
Ben altri dovrebbero essere i dati da analizzare. L’Università, oggi, non prepara, non informa né, tanto meno, forma.
Non prepara perché chi da essa esce non è vero che sia un professionista; non informa perché è arretrata sul piano sia temporale che scientifico; non forma poiché, nella confusione e nel capovolgimento di ogni valore e concetto, rinuncia al compito principe assegnatole: trasmettere al giovane saggezza e conoscenza.
L’Unione Europea ci chiede di “sfornare” più laureati, gli Atenei sono ricattati dal Ministero, in quanto i contributi annuali percepiti dallo Stato vengono erogati soprattutto in funzione al numero annuale dei laureati.
Siamo entrati, quindi, in un vortice dove la Laurea è divenuta merce di scambio e l’unica funzione che l’Università ha voluto e potuto assumere è quella di conferire un certo tipo di documenti necessari per ottenere una qualsiasi occupazione: la Laurea è divenuta così una specie di atto di nascita.
Non importa se quei documenti attestino soltanto che un individuo ha risposto a due o tre domande per ogni esame: la burocrazia della società dei consumi non bada alla sostanza, ma solo alla forma, sempre, però, con il freddo calcolo di aver immesso nuove energie nel processo divoratore della società economicista.
L’Italia e i nostri Atenei non si dovrebbero pertanto curare dei dati percentuali, ma rilanciare la funzione dell’Università come “culla del Sapere” e non come un mero e glaciale laureificio.