A settantadue anni dalla tragica scomparsa del pittore e artista sassarese Giuseppe Biasi, barbaramente assassinato il 20 maggio 1945, vogliamo ricordarne la memoria per troppi anni dimenticata o marginalizzata.
Nato a Sassari nel 1885, da giovanissimo inizia il suo percorso artistico nel disegno e nel 1905 tenne la sua prima mostra al teatro Verdi di Sassari esponendo duecento caricature.
Nel 1908, a Roma, consegue la Laurea in Giurisprudenza e nel 1915 partecipa, seppur non interventista, alla Prima Guerra mondiale. Ferito ad una gamba da una granata, dopo le cure, si trasferisce a Milano dove frequenta circoli culturali ed artistici. Biasi è persona molto colta e le sue letture spaziano su vari autori come Nietzsche, Schopenhauer, Marx, Engels, Stirner, Bakunin e Sorel.
Nel 1919, in un’Italia dove spira forte il vento nazionalista, Biasi assume una posizione tutta sua in merito all’atteggiamento sfavorevole assunto a Versailles dagli alleati nei confronti dell’Italia, simpatizzando per la Germania e ipotizzando un’alleanza italo-tedesca in contrapposizione all’asse franco-inglese: «Sarà così possibile – scrive in una lettera indirizzata ad un amico – che si formi una coscienza collettiva che non c’è mai stata e che si ritorni definitivamente a marciare con la Germania, perché qualsiasi cosa succeda là è l’avvenire nostro». Questo suo pensiero di gioventù, quasi premonitore di quello che storicamente avvenne, lo accompagnò sempre sino al 1945 e fu una delle tante motivazioni che gli costarono la vita.
Dal 1924 al 1927, Biasi si trasferisce in Nord africa e nei suoi soggiorni in Egitto, Tripolitania e Cirenaica, sviluppando uno stile pittorico sintetico ed asciutto. L’artista sassarese, al suo rientro in Sardegna entra in conflitto con l’omologazione artistica voluta dal Fascismo attraverso i sindacati, trovando difficoltà e contrasto soprattutto contro il suo rivale conterraneo Filippo Figari, al quale venne affidata la guida in Sardegna del Sindacato delle belle arti istituito dal regime.
Agli inizi del XX Secolo, Biasi reagisce al comune pensiero che intellettuali positivisti hanno nei confronti dei Sardi che considerano come delinquenti, banditi e selvaggi privi di identità e cultura. Il pittore sassarese, influenzato dalla letteratura di Grazia Deledda e Sebastiano Satta, rimarca la sua identità che si rispecchia nelle suo opere artistiche pittoriche. «L’uomo non è l’uomo che si trova tutti i giorni, un gentiluomo che viene qui capisce subito che qui c’è una razza. Il popolo sardo gli appare come una umanità omerica e pre-socratica, ricca di energie vitali, forte di una generosa barbarie …… essere pittore e rivelatore della Sardegna fondata su una cultura pastorale e contadina finalmente ribaltata in positivo, da segno imbarazzante di arretratezza e miseria a simbolo di una civiltà antichissima. La sua arte si propone così come importante fattore di ideologizzazione, in grado di contribuire al processo di un nuovo senso di identità che impegna già da qualche tempo gli intellettuali sardi»: cosi scrivono Giuliana Altea e Marco Magnani nel loro libro intitolato a Biasi, edito nel 1998 dal Banco di Sardegna.
Biasi, al contrario di quanto possano in molti pensare, non fu mai un fervente fascista. Tutt’altro. Era uomo di cultura, considerato uno spirito libero, che si disinteressava della politica ed era abbastanza asettico al Fascismo-regime del cosiddetto “ventennio”. Quantomeno sino al ’43, quando aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Si trovava a Biella, l’8 settebre 1943, per lavori che gli furono commissionati. Giuliano Altea e Marco Magnagni raccontano che «in piena guerra partigiana non ha esitato a schierarsi dalla parte verso cui lo traevano la cerchia delle sue amicizie, le sue consuetudini di vita, le simpatie per l’alleato germanico, un malinteso senso di cavalleresca lealtà verso il vinto e di vergogna per lo spettacolo di una Italia sprofondata nel fango, prostrata e miserabile».
Alla base della sua scelta, come ricordato, era sempre persistente il suo filo germanesimo e alcune sue considerazioni mostravano avversione, sul piano artistico e culturale, all’influenza giudaica . Nel dicembre del 1940 scrive al pittore e amico Alessandro Pandolfi: «È ancora gente che vive del riflesso parigino, oggi tramontato per almeno un secolo. Ed al richiamo parigino si sostituirà quello di Berlino o quello di Monaco. Verrà dell’ordine dal di là delle Alpi, te lo assicuro. Lo leggo giornalmente ciò che si scrive lassù e vedo che le idee sono chiare e riguardano tutta l’Europa». E ancora nell’aprile del 1941, sempre a Pandolfi, scriveva: «Sono sempre, malgrado ciò, sicuro che la guerra e l’inevitabile vittoria spazzeranno via i resti del movimento giudaico nell’arte italiana. Comunque certamente il centro più importante degli artisti in Europa sarà Monaco; Milano e Parigi si equivarranno».
Ad ogni modo, queste sue posizioni, gli costarono molto caro. Seppur aderente alla RSI, non si impegnò mai in politica, proseguendo la sua carriera di artista e pittore. Era solito intrattenersi con ufficiali tedeschi che risiedevano nel suo stesso albergo e a volte gli capitava di svolgere il ruolo di interprete. Arrestato a guerra ormai finita, il 2 maggio 1945, accusato di essere spia delle SS, venne picchiato durante gli interrogatori. Tra i suoi accusatori non era un caso vi fosse anche un componente della polizia partigiana, Guido Mosca, pittore suo rivale, che spesso criticava lo stile artistico di Biasi. Tra i due non corse mai buon sangue e in più di un’occasione si scontrarono apertamente.
Il 20 maggio 1945, dopo 18 giorni, venne scarcerato insieme ad un gruppo di altri 28 prigionieri politici per essere trasferito in un vicino campo di concentramento. Nell’attraversare a piedi il paese di Adorno Micca, i prigionieri furono assaliti da una folla inferocita che sfociò in una fitta sassaiola. Giuseppe Biasi fu colpito alla testa e morì tragicamente sul colpo. Sepolto a Biella, le sue spoglie vennero portate al cimitero di Sassari solo nel 1994.