“Sa Paradura”, così definiscono i sardi l’aiuto portato a chi ha perso tutto. Proprio nel nome di questa antica tradizione, i pastori sardi hanno donato mille pecore ai pastori umbri, in segno di solidarietà e sostegno a quelle popolazioni colpite dal terribile terremoto di alcuni mesi fa. Un gesto concreto che vale molto di più delle parole dei politici italiani, che, come tutti sanno, sono bravissimi a promettere, ma scarsamente abili nel mantenere poi la parola data. Ma un gesto che soprattutto ha un alto valore simbolico. Tito Livio racconta, nella Storia di Roma, della cesta con Romolo e Remo abbandonata sulla riva del fiume: “È ancora viva la tradizione secondo cui, dopo che per la scarsità d’acqua il cesto con i gemelli rimase all’asciutto, una lupa assetata discesa dalle montagne vicine, indirizzò i suoi passi verso i vagiti dei neonati e offrì loro le sue mammelle, mansueta al punto che un pastore del regio gregge (dicono che si chiamasse Faustolo) la trovò mentre li lambiva con la lingua; egli li portò alle stalle e li affidò a sua moglie Larenzia, perché li allevasse. Alcuni pensano che i pastori chiamassero “lupa” Laurenzia perché si prostituiva e che di qui sarebbe derivato lo spunto per la straordinaria leggenda. Così generati e così allevati, raggiunta che ebbero la giovinezza, svolgevano alacremente il loro lavoro nelle stalle e presso il gregge e amavano andare a caccia nei boschi. Irrobustiti nel corpo e nello spirito, non si lamentavano ad affrontare le fiere, ma assalivano anche i briganti carichi di preda, dividendo poi il bottino fra i pastori. Con questi spartivano lavoro e svago e ogni giorno il gruppo dei giovani si faceva più numeroso”.
Così un pastore contribuisce a salvare i gemelli che poi crescono prendendosi cura del gregge del padre. A rinsaldare questo legame, nel giorno della fondazione di Roma, si festeggiava la dea Pales, protettrice delle greggi. Con questi presupposti, vogliamo spingerci al di là di tutte le sovrastrutture mentali o culturali, che hanno trasformato la figura del pastore in un essere primitivo, bruto e alienato. Al giorno d’oggi, sono soprattutto stranieri coloro che svolgono questo antico mestiere, mentre alla nostra gioventù viene riservato il “paradiso dei videogiochi e dei lavori da scrivania”. Nonostante ciò, chi ha avuto mai la fortuna di incontrare qualche vecchio pastore in montagna, ricorderà sicuramente i suoni, incomprensibili e primordiali, ma efficaci, con i quali i pastori si relazionano con il proprio gregge: “Vipperaaa!” , oppure “ leee fassaaaa”. Il pastore infatti vive completamente immerso nella natura per lungo tempo, ne conosce ogni suono o rumore, sa comprendere dal vento e dalle nuvole il tempo che sarà, dai profumi presenti nell’aria avverte l’avvicinarsi di altri animali. Il pastore vive sempre in tensione, come dice il proverbio popolare, dorme con un occhio aperto: sa bene che l’assopimento potrebbe portarlo a non accorgersi dei pericoli imminenti. Il pastore è saggio, ha sempre con sé un bastone, che non gli serve per appoggiarcisi sopra stancamente, come nella rappresentazione di thanatos, ma è utile per dirigere il gregge (ripreso poi dal bastone pastorale dei vescovi) o anche come arma, per respingere attacchi improvvisi. Il pastore è attento a preservare l’ambiente che lo circonda, perché sa che grazie alla natura incontaminata il suo gregge può sopravvivere.